Ma che piccola storia ignobile che mi tocca raccontare… Così iniziava un brano di Francesco Guccini del 1976; la canzone raccontava di una ragazza costretta ad abortire clandestinamente ed era una chiara denuncia ai moralisti e alla politica che si levavano contro l’interruzione volontaria di gravidanza. Il tema oggi è purtroppo tornato attuale, ma non è di questo che voglio parlare.
La mia “piccola storia ignobile” non si svolge negli anni Sessanta o Settanta, bensì nel 2022 e lo scenario non è uno sperduto paesino di provincia ma un ospedale della Capitale. Il protagonista di questa storia è un uomo che mi piacerebbe poter chiamare coi suoi veri nome e cognome, ma, purtroppo, chiamerò Vittorio. Vittorio fa volontariato per un’associazione che si occupa di Hiv ed è contento che la sua storia possa essere conosciuta, ma non se la sente ancora di apparire su una testata, di “metterci la faccia”, perché Vittorio è anche una persona che vive con Hiv e ancora oggi, anno domini 2024, se la sua condizione diventasse di dominio pubblico, potrebbe avere dei problemi sul lavoro.
Ecco la storia. Una sera di due anni fa, Vittorio avverte forti dolori al petto e, preoccupato, corre al Pronto Soccorso dell’ospedale più vicino alla sua abitazione. Durante il colloquio di triage, l’uomo deve parlare attraverso il vetro che divide lo sportello dell’operatore dalla sala di attesa e deve alzare la voce per farsi sentire. Gli vengono fatte le domande di rito, tra le quali, ovviamente, sulle sue condizioni di salute. Vittorio non ha problemi a dichiarare il suo status di positività all’Hiv a un operatore sanitario, anzi, ritiene che chi lo dovrà curare debba avere tutte le informazioni necessarie, ma in quella situazione dovrebbe parlare a voce molto alta e farsi sentire da tutte le persone presenti. Decide quindi di scrivere le fatidiche tre lettere sullo smartphone e mostrare il display. Ricordiamo che Vittorio era lì per dei sintomi importanti, quindi anche in uno stato di comprensibile agitazione, che non veniva certo diminuita da una palese violazione della riservatezza.
Vittorio viene tenuto in osservazione tutta la notte e, al mattino, trasferito nell’unità di terapia intensiva coronarica. Il primo giorno l’uomo riceve i pasti come gli altri pazienti, con stoviglie di porcellana e posate di acciaio ma, il secondo giorno e poi anche il terzo, gli arrivano piatti e posate usa e getta. A questo punto Vittorio chiede all’infermiere il motivo di questa differenza di trattamento rispetto agli altri ricoverati e gli viene risposto che è a causa della sua positività all’Hiv. Vittorio non è uno sprovveduto e non intende lasciar correre: chiede subito chiarimenti a uno dei medici del reparto, il quale risponde che quelle sono le disposizioni del Direttore Sanitario. A questo punto Vittorio si rifiuta di mangiare e chiede di poter parlare col Direttore. Il medico scompare, ritorna dopo una mezz’ora e incarica chi di dovere di fornirgli i pasti con le stoviglie che vengono usate per tutti i degenti.
Il giorno dopo, Vittorio si accorge che un’infermiera, che si sta avvicinando al suo letto senza guanti, viene intercettata da un collega che le indica la pediera del letto. Chiede spiegazioni e, dopo un po’ di insistenza, gli viene detto che ci sono dei segni che indicano i pazienti che devono essere trattati con maggiore attenzione nell’uso dei dispositivi di protezione. Vittorio stenta a credere a quello che gli viene detto, anche perché fino a quel momento non gli era stato possibile alzarsi, ma quando il giorno dopo gli viene permesso di andare in bagno, può constatare coi suoi stessi occhi che sulla pediera del letto c’è un bel bollino rosso, visibile a tutti: al personale sanitario, ma anche agli altri pazienti, al personale delle pulizie e ai visitatori.
A questo punto Vittorio ha un colloquio con uno dei medici del reparto, chiedendo ancora spiegazioni su quel bollino e gli viene risposto che si tratta di una comunicazione interna riferita a quei pazienti per i quali sono necessarie “particolari accortezze” per la sicurezza degli operatori. Vittorio non riesce a credere a quello che sta sentendo; oltretutto è ricoverato con una patologia cardiaca per cui l’agitazione e l’amarezza per il trattamento subìto non fanno certamente bene. Spiega al dottore che U=U (ovvero Undetectable=Untrasmittable: una persona Hiv positiva con carica virale non rilevabile non trasmette il virus) è considerata una provata evidenza scientifica, in quanto confermata da numerosi studi e lo invita a mettersi in contatto con la propria dottoressa di riferimento presso il reparto di malattie infettive di un altro ospedale romano, dove lui è da tempo in cura. Aggiunge infine che l’uso di stoviglie usa e getta dovuto alla sua condizione di positività all’Hiv è privo di ogni fondamento scientifico, come pure l’utilizzo di guanti solo con alcuni pazienti e con altri no.
Il medico ammette che in effetti non sono preparati ad affrontare un paziente con Hiv e poi minimizza, riferendo che tale tipo di segnalazione viene adottata anche in altri reparti e che, soprattutto, Vittorio non deve preoccuparsi più di tanto poiché in quei giorni non sono consentite le visite dei parenti (siamo ancora in periodo Covid). Ovviamente, la spiegazione non soddisfa minimamente l’uomo che non solo non percepisce alcun tipo di empatia da parte del sanitario, ma neanche la volontà di informarsi su quanto gli viene detto. E, ovviamente, il problema non era che ci fossero o meno le visite, ma che un reparto di cardiologia -peraltro all’avanguardia- di un importante ospedale, per quanto riguarda l’Hiv sia rimasto fermo agli anni 80.
In ogni caso il giorno dopo il bollino viene rimosso dal letto, senza che a Vittorio venga data alcuna spiegazione e, men che meno, senza che gli vengano fatte delle scuse. Oggi Vittorio sta bene ma ha deciso di non dimenticare quello che gli è successo e ha intentato un’azione legale nei confronti dell’ospedale, non tanto per un sentimento di rivalsa personale, ma affinché a nessun’altra persona venga riservato quel tipo di trattamento.
Ho voluto raccontare questa “piccola storia ignobile” perché ancora oggi, arrivano alle nostre Associazioni segnalazioni di discriminazioni nei confronti di persone che vivono con Hiv. In ambito lavorativo, in ambito sociale e, ancor più grave, in ambito sanitario.
Hiv Outcomes è una realtà creata nel 2016 in ambito europeo da diversi stakeholders (clinici, pazienti, istituzioni pubbliche e aziende farmaceutiche) che nel 2023 ha promosso una ricerca insieme a Fondazione The Bridge con l’obiettivo di rilevare i livelli di conoscenza in materia di Hiv e di stigma negli ospedali italiani; sono stai esclusi, ovviamente, i reparti di malattie infettive. Dei 915 operatori sanitari (medici, infermier*, ostetric*, OSS) di 10 ospedali italiani che hanno risposto, più del 44% indica come responsabili della trasmissione di Hiv fluidi quali saliva, urine, lacrime; addirittura un 4,5% indica la puntura di zanzara. Solo il 24,5% de* rispondenti è a conoscenza di U=U. Relativamente allo stigma, il 54% riferisce di non sentirsi a rischio nel trattare un paziente Hiv+, mentre i restanti vanno da “un po’ a rischio” fino all’8,7% che si sente “molto a rischio”. Alla domanda se i pazienti che vivono con Hiv vengono trattati allo stesso modo degli altri, il 56,7% risponde “totalmente”, mentre le altre risposte si dividono tra “abbastanza”, “un po’” e “per niente” (6,2%). Infine, il 30% de* intervistat* ritiene “irresponsabile” il motivo del contagio, mentre il 9,5% lo ritiene “immorale”.
Ribadire oggi quali sono i fluidi corporei che trasmettono il virus e quali sono le modalità di trasmissione (poche e ben definite), sembra pleonastico, dato che sono informazioni che si possono trovare su qualsiasi sito online e addirittura su qualsiasi opuscolo, ma, evidentemente non bastano, se ancora oggi, in un ospedale, vengono fornite stoviglie usa e getta a un paziente positivo all’Hiv.
E se come Community ci sforziamo di diffondere la “buona novella” di U=U e scopriamo che purtroppo sono ben poche le persone che ne sono a conoscenza tra la popolazione generale, è inammissibile che tale evidenza venga ignorata da chi lavora in ambito sanitario. E visto che le maggiori Agenzie internazionali di risposta all’Hiv/Aids sono concordi nell’indicare stigma e discriminazione tra i fattori che maggiormente facilitano la diffusione del virus, è evidente che c’è ancora molto da fare per raggiungere una dimensione in cui l’Hiv sarà considerata come una qualsiasi altra patologia cronica, priva di stigma.
2024-10-03T10:47:12Z